• 18/01/2025

Semia: compensare CO2 recuperando il territorio

 Semia: compensare CO2 recuperando il territorio

Semia è una start up agritech che recupera aree agricole incolte grazie al coinvolgimento di aziende che, finanziando la bonifica, compensano le proprie emissioni. Ne abbiamo parlato con il fondatore, Stefano Poli

L’idea di Semia (link) nasce nel 2019 e la sua ispirazione, almeno in una prima fase, è essenzialmente agricola. Da amante della campagna e proprietario di diversi terreni situati sulle colline fiorentine, Stefano Poli non può fare a meno di constatare come l’inesorabile processo di abbandono della micro e piccola impresa agricola vada inquadrato come un problema sociale non solo per le inevitabili ricadute occupazionali, ma anche per la compromissione dell’immagine dell’intero territorio regionale.

«Se tolgo oliveti, vigneti, boschi – ovvero tutti quegli elementi che ad oggi risultano attrattivi per i visitatori rendendo unico e riconoscibile nel mondo il paesaggio della Val d’Orcia piuttosto che di San Gimignano o delle Crete Senesi – che cosa resta della Toscana? – commenta Stefano Poli –.

TOSCANA ECONOMY - Semia: compensare CO2 recuperando il territorio
Stefano Poli

Esiste un valore aggiunto per ciascuna azienda che opera sul nostro territorio che non proviene direttamente dalla sua filiera, ma che contribuisce a incrementare il suo business, ecco perché ritengo giusto che in qualche modo le aziende ricambino il favore investendo un pezzettino dei loro profitti nel recupero e nella bonifica delle aree incolte, soprattutto gli oliveti che hanno il vantaggio di essere sempre verdi, di avere uno stock di carbonio molto alto e di essere una coltura molto rilevante in Toscana».

E qui subentra la mission “di sostenibilità” del progetto Semia, che ha messo a punto un modello che offre alle aziende: la possibilità di quantificare l’entità dell’impatto della propria produzione (attraverso la misurazione della carbon footprint); quella di definire un obiettivo di compensazione parziale o totale delle emissioni; quella di identificare un’area agricola abbandonata dove si possa procedere a un sequestro di CO2 tale da compensare quella emessa dall’impresa durante l’attività produttiva; quella di documentare il sequestro e, infine, quella di comunicare l’impegno dell’azienda contribuendo in questa maniera all’incremento della sua green reputation.

«Per altro non ci siamo improvvisati – puntualizza Poli – avendo potuto contare sul supporto di istituzioni competenti come il CNR, l’Università della Basilicata e quella di Firenze, che hanno studiato a lungo la capacità dell’ulivo di sequestrare CO2 e hanno validato il modello». I dati devono comunque essere verificabili e il miglioramento ambientale documentabile. «Esattamente.

Per questo il sequestro di CO2 deve rispettare dei precisi criteri – spiega Poli – ovvero quello di essere incrementale (dopo l’intervento la capacità di sequestro dell’area scelta deve essere superiore rispetto a quello precedente alla riforma); netto, cioè calcolato al netto di ogni emissione riconducibile alle attività svolte per effettuare la bonifica, ecco perché non usiamo nessun genere di prodotto chimico e solo attrezzi ad alimentazione elettrica ove possibile; e permanente, cioè duraturo nel tempo.

Le piante non vengono abbattute e i residui delle loro potature non vengono bruciati, evitando di reimmettere in atmosfera CO2».

E cosa ci guadagnano le aziende? «Anzitutto oggi il rating ESG è un criterio fondamentale per accedere al credito e ottenere ogni altro genere di agevolazioni – spiega Poli –. Quasi tutte le aziende hanno compreso l’importanza di redigere un bilancio di sostenibilità e costruire una green reputation in generale migliora il posizionamento del proprio brand sul mercato e poi va compreso il fatto che far ripartire i terreni abbandonati produce economie non solo per le aziende agricole.

Il ricavo è ecosistemico, le imprese devono comprendere che, se Atene piange Sarta non ride e che nessun business sul territorio è avulso dalla naturale vocazione di quel territorio, una visione che non tenesse conto di ciò sarebbe miope».

La sostenibilità di Semia affonda le radici nella volontà di far vivere bene quello che c’è e dalla constatazione che nessuno è in grado di replicare il processo di fotosintesi se non la pianta stessa. «C’è più know-how in un filo d’erga che alla Nasa – ricorda a questo proposito Poli –. La nostra volontà è quella di creare un parco ecosistemico, ci prendiamo cura del nostro territorio, in luoghi dove le aziende che hanno contribuito a riformare possono recarsi fisicamente, consumando l’olio che ne è stato ricavato, ad esempio. È già successo.

Poi lo stesso olio è stato utilizzato come cadeau per i clienti e indirettamente una maniera che l’azienda utilizza per comunicare il suo impegno e il suo comportamento virtuoso a favore dell’ambiente». Attualmente, Semia ha individuato un’area test situata sulle colline fiorentine, nel comune di Bagno a Ripoli, ma la volontà è quella di esportare il modello ovunque emerga la ferma volontà lungimirante e sostenibile di mantenimento del territorio.

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Maria Salerno

Giornalista - maria.salerno@toscanaeconomy.it

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