Piano d’impresa per una nuova azienda
Dopo aver ricognizzato quanto opportuno è il momento di tirare le fila, si prova a comporre un piano d impresa adatto alle esigenze di una nuova azienda
La latitudine visiva dalla quale poter osservare un piano d’impresa può muovere da considerazioni di vario tipo. Si può ondeggiare tra il filosofico, l’economico, l’antropico e chi più ne ha più ne metta.
Invero i campi da lambire sono molti e tutti di grande valenza, almeno dal punto di vista di chi li eccita. Questa rivista se ne è occupata qualche tempo fa (https://toscanaeconomy.it/piano-dimpresa-per-una-nuova-azienda/ ).
In argomento si è fatta un’ampia panoramica con l’auspicio di rendere qualche certezza in più a chi si avventura nel mondo delle imprese. Forse per diventare imprenditore non basta entrare in una cabina telefonica, ammesso che si trovi ancora, ed uscire con un mantello alla Clark Kent. Come si è già detto bisogna partire da un’idea, provare a renderla plastica inserendo nell’alambicco anche processi, studi, potenziali di mercato e fattori produttivi.
A questo punto una bella mescolata e via: ecco una nuova impresa perfettamente funzionante e pronta per dare dei punti a chi sta sul mercato da tempo. Ma sarà proprio così? Decisamente no. In tutto questo ragionamento, e nel precedente articolo, manca un elemento a mio avviso non proprio secondario: la coerenza dei numeri. Per una serie di motivi in fondo alla catena decisionale ci sono proprio loro che, con la loro estrema coerenza, pazienza e pragmatismo, si autocandidano per restituire all’imprenditore una risposta secca tra le due possibili: si, no.
Con la prima si vuole intendere che il progetto è sostenibile, quindi avanti tutta.
La seconda trasuda la sua non sostenibilità e, nello spirito della più inebriante mappa concettuale, o si declina il tutto o, come un intrigante gioco dell’oca, si ritorna sui propri passi per verificare cosa si può fare per correggere il tiro e riprovare a sottoporsi sotto le forche caudine del piano d’impresa. Altro giro, altra gara.
Quanto espresso, più che ad un accountant pride, vuole rispondere ad un principio di sana coerenza in cui i numeri e le loro correlazioni possono supportare al meglio l’imprenditore in erba.
Dando per assodato quanto detto, da dove partiamo? Dal conto economico o dalla situazione patrimoniale? Per semplificare, ma veramente di molto, per situazione patrimoniale potremmo intendere quello che ci potrà servire per produrre – attivo – e con cosa lo paghiamo – passivo -.
Il conto economico ragiona per flussi annui. Tra i ricavi accoglie, per la maggior parte, il fatturato e tra i costi quanto abbiamo speso per generarlo.
Senza tirare in ballo questioni di “avicola memoria” – chi è nato prima tra l’uovo e la gallina, per intenderci – si potrebbe suggerire un percorso che parta prima dal conto economico per poi arrivare alla situazione patrimoniale, ma anche viceversa per poi conciliare il tutto.
In questo caso diamo per postulato che sia stata fatta una ricognizione del mercato con quantificazione della possibile quota che l’azienda si potrebbe ritagliare. Di norma le stesse quote crescono negli anni per poi stabilizzarsi fino a quando uno scrollone non ne fa ripartire la crescita. L’idea del fatturato restituisce la dimensione della produzione necessaria e con essa anche i relativi costi (acquisti di materie e servizi, utilizzo di personale).
Dopo aver affinato le relazioni tra componenti dei ricavi e dei costi sarà la volta dell’attivo e del passivo. Se non si definisce una coerenza tra i due ambienti si dovrà ritornare sui ricavi e costi e successivamente ripassare su attivo e passivo.
I modelli non sono un problema, l’importante è individuare cosa metterci. In una delle prossime occasioni potremmo sviluppare un semplice, ma efficace, piano d’impresa.
Il loop non è semplice né franco da isterie. Tuttavia, se prendiamo questo processo per il giusto verso almeno potremmo già risparmiare alcuni costi: quelli per analisti e psicologi.
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