Lotrèk, umani prima che digitali

Filippo Gruni Lotrek
L’impegno etico di Lotrèk: un modello di impresa partecipativo per favorire la crescita dell’azienda e coinvolgere i soci. Intervista a Filippo Gruni, Ceo e Co-founder di Lotrèk
Lotrèk si discosta dal classico modello contemporaneo di agenzia per la sua ragione sociale: è una società cooperativa caratterizzata da un fine mutualistico, che punta alla condivisione dei profitti e alla gestione democratica, diversamente dal modello capitalistico incentrato sul massimo profitto per gli azionisti. Questo approccio favorisce una maggiore inclusione dei lavoratori nelle decisioni aziendali, senza tralasciare una distribuzione equa del valore generato.
Fondata da sette persone, Lotrèk è riuscita, anno dopo anno, ad aumentare il suo fatturato, arrivando a superare i 3,5 milioni di euro nel 2023 e ad attivare collaborazioni con numerosi clienti nazionali e internazionali, offrendo consulenza alle imprese tramite servizi di trasformazione e accelerazione del business. Con Filippo Gruni, Ceo e Co-founder di Lotrèk, approfondiamo alcuni aspetti peculiari della società.
Perché avete scelto questo modello di impresa?
«All’inizio Lotrèk era un co-working, composto esclusivamente da risorse a partite Iva. Una volta che abbiamo iniziato ad avere un giro d’affari che ci permettesse di strutturarci, abbiamo fatto un po’ di ricerca, ispirandoci anche a dei modelli di imprenditoria collettiva che ci sono negli Stati Uniti e che sono, di fatto, degli studi associati. In Italia la forma giuridica più vicina a questa logica era la cooperativa: da lì la nostra decisione di aprirla in sette, quattro ragazze e tre ragazzi, nove anni fa».
Come sono coinvolti i soci nelle scelte aziendali?
«Come azienda, la componente gerarchica è fondamentale e viene rispettata. Ci sono delle responsabilità, c’è un consiglio di amministrazione, ci sono dei ruoli e c’è una linea manageriale ma, detto questo, la differenza è che le grandi scelte vengono discusse insieme al gruppo dei soci, andando in modo trasparente al voto finale che stabilisce l’entrata in vigore.
C’è un regolamento interno, anche questo fatto da tutti i soci, e in questo modo ci garantiamo la democrazia. Ovviamente la trasparenza è alla base di tutto questo, dunque ogni socio può chiedere lo status economico o finanziario dell’azienda e fare tutte le ricerche e le valutazioni che desidera».

Che ruolo assume l’etica di impresa nell’attuale momento storico?
«In una cooperativa l’etica di impresa è tutto. In questo momento storico, secondo me, la sua importanza è ancora più accentuata dai numeri del nostro turnover che parlano chiaro: vanno via meno di due persone all’anno e questo è impensabile che accada in un’agenzia di 80 persone.
Il motivo, probabilmente, dipende proprio dalla massima trasparenza e dal coinvolgimento totale delle persone. Per questa ragione, per noi, l’etica è fondamentale e si ripercuote direttamente sul lavoro e sulla qualità dei nostri servizi, perché il nostro prodotto, alla fine, sono le persone. Per avere delle persone ottime bisogna creare un’ottima etica. Personalmente, penso che ora ci sia molto bisogno di questa logica, indipendentemente dalla forma societaria».
La cooperativa in che modo stravolge i canoni della classica impresa?
«La cooperativa non stravolge niente perché è un’impresa a tutti gli effetti. Le logiche di un’azienda, che hanno a che vedere con la crescita e con la sostenibilità economica, non vengono assolutamente stravolte, anzi, la sfida è proprio quella: far andare in parallelo la parte imprenditoriale con la parte di tutela e coinvolgimento massimo delle persone.
Non è per niente semplice ma, a mio parere, la cooperativa migliora il tutto. Vi è però una rottura con la concezione per cui il lavoratore viene contrapposto al padrone: qui non abbiamo padroni, ma se vogliamo usare ancora questa metafora, direi che il padrone è operaio e l’operaio è padrone».
Quali sono i vantaggi di questo modello di impresa?
«Sicuramente per noi uno dei vantaggi più significativi ha a che vedere con la riduzione elevatissima del turnover anche se, in questo caso specifico, penso che non sia solo ed esclusivamente la cooperativa che porta a questo, ma è anche il modo in cui si fa azienda. In secondo luogo, noi su tutte le progettualità schieriamo i proprietari dell’azienda, quindi il coinvolgimento e l’attaccamento al lavoro è molto diverso.
Infine, un terzo vantaggio è dato dal fatto che la cooperativa ha uno scopo mutualistico, non capitalistico: ciò significa che, all’aumentare e al migliorare dell’azienda, migliorano direttamente le condizioni dei lavoratori. Un’azienda che cresce insieme è decisamente più forte e sul mercato dei servizi questo valore diventa importante».
Che modello di sostenibilità economica garantite?
«Ai dipendenti proponiamo un contratto Ccnl del Commercio. Noi abbiamo una cooperativa di produzione e lavoro, dunque un’azienda a tutti gli effetti e, per questa ragione, le tutele garantite ai lavoratori sono quelle stabilite dal contratto. Il plus di cui beneficiano i soci è un welfare “più spinto”: ad esempio, noi abbiamo previsto delle assicurazioni personali, su infortuni o in caso di morte, che non sono esclusivamente legate al lavoro.
Poi c’è una crescita singola, ma che dipende dal lavoratore o dalla lavoratrice che aumenta la sua seniority e cambia il ruolo seguendo un career path definito. Infine, solitamente a fine anno, se l’azienda ha fatto un utile importante può pensare di distribuirlo tra i soci in maniera equa».
Quali sono le attuali criticità del mondo del lavoro?
«L’elevato turnover è sicuramente una criticità data dal fatto che nelle agenzie, soprattutto, è molto difficile crescere. Si può crescere a livello di skill e di seniority, ma è un percorso che non viene riconosciuto proprio perché la sostenibilità economica in un’agenzia è molto complicata: spesso i contratti non sono a lungo termine. La continuità di business è un problema enorme nel mondo dei servizi, a cui si somma il momento di incertezza che vivono le persone a livello personale.
L’altro problema oggi è, secondo me, una mancanza di competenze generale che si lega alla formazione pubblica e universitaria, che forma persone che poi non sono totalmente adatte al lavoro. In altri stati, in Europa specialmente, questa cosa non c’è, mentre in Italia si sente di più. Ci sono poi tante altre cose che dovrebbero essere citate, tra cui i fattori esterni: conflitti militari, incertezze sul mercato e i tassi di interesse. Questo è un momento storico molto complicato che ci vede tutti coinvolti».