Il videogioco come opera d’arte
La lezione di The last of us: part 2
L’annuncio è ufficiale. HBO coprodurrà, con PlayStation Productions e Sony Pictures Television, l’adattamento di The last of us, opera di pregio della Naughty Dog
Dal comprensibile riserbo in cui è avvolto il progetto, negli ultimi giorni sono emersi solo i nomi degli interpreti protagonisti: Pedro Pascal (Narcos, Game of Thrones, The Mandalorian) e Bella Ramsey (Game of Thrones, His Dark Materials). Accantonata l’ipotesi iniziale di un lungometraggio affidato a Sam Raimi, la produzione della serie era già stata anticipata nel marzo del 2020, con il coinvolgimento di Craig Mazin e Neil Druckmann, creatori e produttori di Chernobyl. L’episodio pilota, diretto da Kantemir Balagov, dovrebbe debuttare nel corso di quest’anno.
Intersezioni tra cinema e videogiochi non sono una novità. La stessa PlayStation Productions è nata allo scopo di tradurre in linguaggio filmico i titoli del suo franchise – il prossimo appuntamento è con Uncharted, che vede Tom Holland come protagonista. Super Mario Bros (1993), la saga di Resident Evil (2002-2016), Assassin’s Creed (2016), Detective Pikachu (2019), fino al recentissimo Monster Hunter sono altrettanti tentativi di contaminazione di genere. Il loro esito è stato, tuttavia, ampliamente al di sotto delle aspettative: la struttura di un action classico si presta poco a una semplice trasposizione cinematografica, se non come operazione di marketing. Costituiscono un’eccezione, quanto alla risposta del pubblico e della critica, Tomb Rider (2018) e soprattutto la gradevole serie The Witcher, con Harry Cavill, distribuita da Netflix nel 2019. Perché?
Chi pensasse che i videogiochi sono un affare per bambini, uno spreco di tempo, un invito all’alienazione o un prodotto informatico come altri, paleserebbe una visione arcaica e superata, che forse poteva valere per Pong o per i cabinati, ma di certo non per le produzioni più recenti. Lo sviluppo di un videogioco comporta un lungo – e costoso – lavoro e coinvolge numerose professionalità: programmatori, sviluppatori e designer, certo, ma anche tecnici del suono, traduttori, attori, sceneggiatori e art director. Si prenda in considerazione, a titolo esemplificativo, la partecipazione di Norman Reedus e Mad Mikkelsen a Death Stranding (2020), l’esecuzione della Swedish Radio Symphony Orchestra per Bloodborne (2015) e di Eddie Vedder per The Last of us: Part 2 (2020), la collaborazione di George R.R. Martin allo sviluppo narrativo dell’ambizioso Elden Ring (in produzione), l’inconfondibile autorialità di Hideo Kojima e di Hidetaka Myazaki. Non solo giochi, dunque, ma l’ultima frontiera dell’intrattenimento e della narrazione.
Il primo capitolo di The last of us (2013) presenta una trama semplice, quasi classica: vent’anni dopo un evento apocalittico che ha precipitato nel caos gli Stati Uniti, un contrabbandiere (Joel) e un’orfana quattordicenne (Ellie) si mettono in viaggio per consegnare una cura – la stessa Ellie – a un mondo malato. Tra città deserte, ingorghi di auto abbandonate e ponti crollati, i due protagonisti devono farsi strada tra mostri e umani non meno mostruosi. Il solito survivor horror, si direbbe, l’ennesima variazione del genere zombie. Eppure, ciò che ha colpito del gioco, a prescindere dalle meccaniche e dalle caratteristiche tecniche, è stato lo sviluppo dei personaggi, complessi e irriducibili al corrente manicheismo morale delle maschere di una tragedia greca; personaggi in evoluzione, chiamati a compiere scelte tragiche incommensurabilmente più grandi di loro, con un epilogo lontano dal senso comune. Tra il destino dell’umanità e quello di una bambina, che gli era stata affidata come merce e che ha imparato ad amare, Joel sceglie quest’ultima. Il nostro mondo non è la totalità dei viventi, ma chi scegliamo di preservare: quando gli angeli si presentarono ad Abramo, non gli promisero forse di risparmiare Sodoma e Gomorra se solo vi avessero trovato almeno un giusto?
Il secondo capitolo, distribuito nell’estate 2020, è a mio avviso, il miglior gioco mai sviluppato. Una narrazione viscerale che trascende le convenzioni e gli stilemi del genere, per colpire direttamente l’essenza del genere umano. La protagonista è la vendetta – come la speranza lo era stata nel primo – , la vendetta che sovverte le norme morali e precipita l’uomo nella follia, nell’abisso ciclico della coazione a ripetere. Con un movimento metateatrale, la vendetta trascina anche il giocatore in una riflessione metafisica: lo fa non con la semplice rappresentazione e giustapposizione di piani narrativi contrastanti, ma con una sapiente operazione di immedesimazione. Si inizia impersonando Ellie, il personaggio buono, quindi si passa a Joel, il protagonista giocabile del primo, incarnazione della figura paterna, e si è poi catapultati nei panni di una sconosciuta, di cui si ignorano identità e fini. Impersonandola, il giocatore si troverà a dover trucidare Joel, senza conoscerne il motivo, e la odierà. Da quel momento, e per tutta la prima metà del gioco, la protagonista sarà Ellie, nella sua ricerca di vendetta. Giunti al confronto finale, le aspettative vengono nuovamente stravolte, e il gioco ricomincia dalla morte di Joel ma dalla prospettiva della donna di cui ormai conosciamo il nome: Abby. Abby. Abby non è un mostro, né Ellie è una eroina alla Jane Austen.
The Last of us è un gioco violento non per la rappresentazione grafica del sangue e delle uccisioni, comune al linguaggio dei media, ma per la forza delle passioni. Due donne, due padri, due amori, un’ossessione: la vendetta. «Qualcosa di più grande e sfrenato di un sentimento umano, qualcosa che sorpassa ogni misura si gonfia dentro di me e spinge le mie pigre mani. No, non so cos’è, ma certo qualcosa di estremo», proclama l’Atreo di Seneca alludendo all’odio verso il fratello. Questa è la violenza autentica di The Last of us: Part 2.
Raccontare storie vuol dire spingersi oltre la verità. God of war, Red Dead Redemption 2, Sekiro, The Last of us: Part 2 hanno trionfato negli ultimi tre anni ai Game Awards, imponendosi come opere narrative a tutti gli effetti. Forse vi è capitato, come è capitato a me, di chiedervi guardando un film recente o leggendo uno di quei romanzi tutti uguali, che fine abbiano fatto le storie. Alcune hanno trovato la loro strada in orizzonti diversi da quegli abituali, orizzonti lontani dalla grettezza di una certa editoria e dalle costrizioni del pensiero unico che pare condizionare i media tradizionali. Se avete storie da raccontare, se avete davvero storie da raccontare, e sapete farlo, percorrete ogni via. La tecnologia non ha assorbito il bisogno di creatività: lo ha potenziato. Giovani scrittori che vivete nell’anonimato, costretti al confronto con giudizi opachi, non scoraggiatevi. Tra i tanti sentieri interrotti che costellano la vostra vita ce n’è almeno uno che, tra le fronde mosse dal vento, si farà latore della vostra voce. Del resto, che cos’altro è il mondo se non un grande, interminabile racconto?