Enoteca Pinchiorri: alta cucina espressione del genio italico

Lavorare all’Enoteca Pinchiorri vuol dire incantare i sensi di chi si siede ai suoi tavoli e anche lasciare un ricordo indelebile nella memoria. Una missione al servizio del cliente, nell’intento generale di rendere l’alta cucina espressione della creatività e della bellezza che da sempre fanno parte dell’identità nazionale. Vuol dire anche cercare sempre di essere se stessi, in una città come Firenze, dove il turismo di massa ha favorito la nascita di tanti stili di accoglienza.
La parola chiave di un tempio della ristorazione come l’Enoteca Pinchiorri è la coerenza che tutti gli abbinamenti tra i cibi e i vini della sua importantissima cantina devono sempre rispettare. Lo rivela Riccardo Monco, executive chef dello storico ristorante 3 stelle Michelin di Firenze dal 2015 e al lavoro nella sua cucina da quasi tre decenni.
«A gennaio saranno 29 anni che sono arrivato a Firenze. Ho sempre avuto la Toscana nel cuore. Da Milano, dove vivevo e ho frequentato la scuola alberghiera, ho fatto la mia prima stagione a Chianciano Terme, per poi spostarmi al Relais La Chiusa di Montefollonico, nei pressi di Montepulciano. Mi sono formato con lo chef Angelo Paracucchi nella sua Locanda dell’Angelo, ad Ameglia, alle porte di Sarzana. A Milano, ho lavorato nel primo ristorante vegetariano a ricevere una stella Michelin, il Joia di Pietro Leemann. C’è anche un altro tre stelle nella mia carriera, il Lucas Carton di Parigi, diretto dallo chef Alain Senderens».
Un percorso in continua ascesa, che lo ha reso anche ambasciatore dell’Enoteca Pinchiorri nel mondo: «Nel 1992 abbiamo aperto un ristorante a Tokyo e nel 2008 abbiamo replicato a Nagoya, che raggiungo due volte l’anno appositamente per cambiare il menu. È un locale che porta il nostro nome, incarnando al 100% la nostra immagine, la nostra influenza e il nostro modo di vedere la ristorazione. A Dubai avevamo The Artisan by Enoteca Pinchiorri, ma è stata una sfida che è durata molto poco. Abbiamo capito che la nostra vera identità possiamo coltivarla non in paesi un po’ “mercenari” come gli Emirati Arabi, ma nei paesi asiatici. Infatti siamo stati tra i primi ad andare in Giappone. Tokyo è la città più “stellata” al mondo con ben 12 ristoranti tre stelle, ma nel 1992, quando l’Enoteca è arrivata in Giappone, c’erano solo il Sabatini di Roma e la Tour d’Argent di Parigi. Quindi possiamo dire di essere stati, soprattutto per l’Italia, pionieri di un certo tipo di ristorazione all’estero».
Materie prime di altissima qualità e tutte made in Italy, è questa la chiave del successo dell’Enoteca Pinchiorri: «Siamo una cucina aperta a tutti gli ingredienti, ma il 90% di quello che vogliamo trovare e valorizzare sono le piccole eccellenze. Ci affidiamo molto a piccoli artigiani, di recente ne abbiamo scoperto uno che a Colle Val d’Elsa si prende cura di verdure ed erbe aromatiche spontanee. Sono convinto che il futuro sarà green e noi cerchiamo di portare avanti questo concetto ogni giorno. Un’altra eccellenza italiana con la quale collaboriamo è il maître chocolatier Giovanni Angiolini, con base a Pontedera. Dopo aver selezionato le fave di cacao con i suoi cru, produce un cioccolato esclusivamente dedicato alla nostra Enoteca. Rimanendo nella provincia di Pisa, ci affidiamo a Cristiano Savini per avere i migliori tartufi, in base alla stagionalità e ai tempi imposti da Madre Natura. È proprio il rapporto speciale che abbiamo con i nostri fornitori che rende grande la nostra cucina».
Scegliere un buon ristorante oggi sembra più facile in base all’offerta che appare su quella vetrina virtuale rappresentata dai social. Un approccio che ha i suoi pro e i suoi contro secondo lo chef Monco.
«Siamo in un periodo storico in cui la gran parte delle persone conosce un ristorante attraverso i social senza averlo mai provato. Prima veniamo ispirati dai social e dalla perfezione delle foto e poi andiamo a provare il locale, dando prova di una preparazione che venti o trent’anni fa non esisteva, perché ci si limitava a prendere la macchina per andare a mangiare nel grande ristorante, senza sapere cosa aspettarsi. Ritengo però che in ciò risiedesse un elemento affascinante, quello della scoperta».
Se per i prodotti tecnologici come i cellulari i nostri gusti si sono uniformati e dipendono tutti dal mercato internazionale, per la cucina, soprattutto quella italiana, vale il principio opposto, quello della varietà: «Riguardo al cibo noi italiani abbiamo un dovere verso il mondo intero. In quanto patrimonio, come nazione, di una diversità infinita di ingredienti e di prodotti unici, sarebbe stupido non appoggiarsi alle nostre eccellenze per non raccontarle poi al mondo intero. Oggi infatti, le persone arrivano in Italia non solo per visitare luoghi e musei, ma anche per scoprire l’enogastronomia, che ha un ruolo sempre più importante nelle motivazioni dei viaggiatori. L’asiatico o l’americano che visita Firenze deve poter trovare una cucina vera e autentica, ma allo stesso tempo moderna. In Toscana, e in Italia in generale, si fa da mangiare in base a profonde radici con la propria storia, ma questo non vuol dire che non ci debba evolvere e che, per esempio, a Firenze, si debba sempre e solo cucinare la pappa al pomodoro o la bistecca. È fondamentale ricercare la qualità e saper lavorare i prodotti. Io ho voluto sintetizzare tutto questo nella presentazione del nostro menù “Il Contemporaneo”. Ho scritto che i piatti elencati si ispirano a “la cucina italiana attraverso gli ingredienti, la tecnica e il gusto”. Sono questi i nostri tre principi-guida».
Parlando dell’estetica del piatto, con lo chef Riccardo Monco emerge un modello che più che ispirarsi all’arte e alle forme geometriche si connette alla natura e alla propria sensibilità personale.
«Sull’estetica si potrebbe ragionare per giornate intere, la verità è che alla fine veniamo ispirati da ciò che il nostro cervello recepisce quando osserviamo delle immagini o dei colori. È troppo facile e banale prendere un piatto con mille salse, schizzarle tutte e dire che il piatto assomiglia a un quadro di Kandinsky. Il rapporto tra il cuoco, il piatto bianco che ha davanti e gli ingredienti è sempre qualcosa di intimo, personale, istintivo. E ispirato alle forme e ai colori della natura. Inventare un piatto e metterlo a punto è un’abilità ormai diffusa. La vera difficoltà per un ristorante come il nostro è interpretarlo, farlo capire ai nostri cuochi e replicarlo tutte le sere in maniera precisa, rendendolo unico per 365 giorni l’anno».
L’unicità è data sicuramente dalla stagionalità, vera e propria chiave di volta dell’alternanza dei piatti: «La natura ha una stagione, ma la stagione non ha dei tempi che si ripetono allo stesso modo ogni anno. Il nostro menu cambia in base a ciò che madre Natura ci offre. È inutile andare a cercare all’estero ingredienti che non sono disponibili in Italia. Inoltre bisogna considerare che il made in Italy è un concetto relativo perché se dovessimo veramente guardare al km 0 e a quello che realmente l’Italia ha prodotto e produce ci fermeremmo ai cavoli e ai broccoli. Non dimentichiamo che prodotti che oggi caratterizzano così bene la cucina italiana, come pomodori, patate e tantissime spezie, provengono da altri paesi. D’altro canto è anche vero che nel momento in cui un prodotto nato altrove viene coltivato in Italia, diventa italiano a tutti gli effetti».
Per approfondimenti: Consulta la guida Michelin per scegliere la tua prossima esperienza culinaria