Assemblea generale pubblica di Confindustria “Il futuro è oggi. Manifattura e catene globali del valore: le rotte dei territori in un mondo instabile” Relazione del presidente di Confindustria Toscana Nord Daniele Matteini

Un caloroso saluto a voi tutti e un ringraziamento per la vostra presenza qui oggi.
Un grazie particolarmente sentito alle persone che hanno accolto il nostro invito a contribuire con loro
interventi a questa nostra assemblea: citandoli secondo l’ordine del programma, il presidente della Regione
Toscana Eugenio Giani e a seguire, in collegamento da remoto, il direttore Affari internazionali di
Confindustria Raffaele Langella; infine il vicepresidente di Confindustria Maurizio Marchesini, il presidente
di Mindful Capital Partners Alberto Forchielli e il direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini, che coordinerà
la tavola rotonda di questi ultimi.
Grazie e benvenuti anche a coloro che ci seguono dalla platea, colleghi imprenditori e ospiti.
Incontrare voi tutti è per me – eletto presidente in piena era covid – un’emozione particolarmente forte e il
segnale più netto di una piena ripresa della vita associativa di cui davvero c’era molto bisogno per poter
ragionare insieme sul futuro.
Il messaggio dell’Assemblea
Un futuro che, dice il titolo che abbiamo voluto dare a questa Assemblea pubblica, è già oggi. Lo è perché
quello che vivremo domani dipende da scelte che dobbiamo fare adesso, subito, senza indugio, e non solo
perché le condizioni del PNRR ce le impongono ma perché semplicemente così si deve fare.
Non abbiamo alibi; in particolare, non si può giustificare nessuna inerzia accampando l’incertezza che
percepiamo e la consapevolezza che vi sono dinamiche fuori da ogni nostro controllo. Anzi, proprio perché
vi sono aspetti non predicibili e non gestibili direttamente, siamo tenuti a fare tutto quanto in nostro
potere per agire almeno dove e quando la nostra volontà può esercitarsi liberamente.
Quando dico “noi”, “nostro”, mi riferisco a tutti coloro che hanno e devono avere a cuore la comunità del
territorio, la sua prosperità, la sua crescita. Dall’Unione Europea alle amministrazioni locali, passando per lo
Stato nazionale e per la nostra Regione, nessuno può chiamarsi fuori. Nemmeno le imprese, naturalmente,
cui compete una funzione economica e sociale fondamentale e che si sono fatte carico negli ultimi due anni
di responsabilità e oneri di enorme pesantezza.
Non bisogna sprecare una crisi
Tornerò fra poco sulle nostre imprese, ma intanto mi preme dire una cosa: se non bisogna mai sprecare
una crisi, men che meno dobbiamo sprecarne due di fila – e addirittura parzialmente sovrapposte – come il
covid e questa guerra spaventosa che macchia di sangue l’Europa.
Due crisi che non riesco a definire “buone” nemmeno nel senso paradossale che usava Churchill quando
appunto diceva che una “buona” crisi non deve essere sprecata.
Queste sono crisi cattive, brutali, che hanno portato e portano morte, destabilizzazione geopolitica e gravi
problemi economici.
Due crisi ancora in corso che, soprattutto la guerra, potrebbero avere effetti ancora più dirompenti di quelli
a cui stiamo assistendo.
Due crisi che ci danno alcune severe lezioni: soprattutto, che produrre beni materiali (di base e innovativi:
entrambi) è essenziale per la tenuta delle nostre comunità, e questo ce lo ha fatto ben capire soprattutto la
pandemia; ma anche, e questo invece è quanto ci ha insegnato soprattutto la guerra, che si rischia di non
produrre affatto o di produrre a costi insostenibili se non si hanno almeno una ragionevole autonomia
energetica, linee affidabili di fornitura e una logistica efficiente e flessibile.

La globalizzazione 2.0
Non sprecheremo queste crisi se sapremo trarne le necessarie conseguenze in maniera ponderata e lucida.
Una maniera sbagliata sarebbe ad esempio quella di dedurne che la globalizzazione deve finire o è già
finita. Per un paese come l’Italia, esportatore e povero di materie prime, sarebbe una prospettiva pessima,
oltre che poco realistica.
Serve una globalizzazione 2.0, non un azzeramento – peraltro impossibile – della globalizzazione così come
l’abbiamo conosciuta finora.
Le catene globali del valore vanno ripensate; rese più flessibili e accessibili; in alcuni casi accorciate,
auspicabilmente anche a vantaggio delle nostre produzioni; gestite prudenzialmente attraverso
diversificazioni delle forniture; neutralizzate, almeno in parte, rispetto a possibili débâcle temporanee
grazie a quelle “ruote di scorta” costose ma talvolta necessarie che sono gli stoccaggi.
Di questi temi il vicepresidente di Confindustria Maurizio Marchesini è un grande esperto: ascolterò anch’io
con interesse insieme a voi quello che emergerà dal suo dialogo con Alberto Forchielli, che a sua volta su
questo piano ha competenza e chiarezza di visione.
Una cosa è certa: in questo ambito non bisogna più dare nulla per scontato, e forse non avremmo dovuto
farlo nemmeno prima di questi scossoni. Salvo l’eventualità, a cui non voglio pensare, di un’escalation della
guerra che la renda fatale per entità ed estensione, non credo che nel medio termine vi saranno
stravolgimenti radicali quanto a dinamiche della globalizzazione.
Ma ci saranno certamente spostamenti anche netti di assi economici; alcuni flussi commerciali si
modificheranno nel senso dell’intensificazione o della contrazione; si verificheranno accelerazioni forti di
evoluzioni già avviate, come la digitalizzazione e l’affrancamento dai combustibili fossili.
Modifiche anche profonde, quindi, aggiustamenti e riequilibri in cui il nostro manifatturiero può e deve
inserirsi proficuamente e vantaggiosamente, cogliendo l’occasione anche per sanare alcuni fardelli storici
suoi propri, come una distribuzione del valore non sempre equa all’interno delle nostre stesse filiere.
Per non sprecare queste crisi occorrono visioni forti e decisioni altrettanto forti. Le debolezze storiche del
nostro Paese – che non cito perché rischieremmo di fare notte e perché tanto le conosciamo fin troppo
bene – vanno affrontate ora o, forse, mai più, perché poi sarà troppo tardi.
Le imprese gettano il cuore oltre l’ostacolo delle crisi
Come imprese stiamo resistendo.
Siamo abituati a farlo, perché nel contesto complicato in cui operiamo bisogna attingere a ogni risorsa per
riuscire a fare impresa. Abbiamo fatto fronte al covid che ci ha fatto chiudere per settimane o che
comunque ha condizionato pesantemente la nostra operatività e le possibilità commerciali; ora facciamo
fronte agli squilibri che si sono creati con questo terribile conflitto e che, con i prezzi alle stelle di energetici
e materie prime, erodono i nostri margini e mettono a dura prova la tenuta delle filiere.
Sono di pochi giorni fa le stime del Centro Studi Confindustria secondo cui in confronto a Francia e
Germania l’Italia è il paese dove il caro-energia si fa sentire di più, a causa del forte utilizzo di gas metano
anche per la produzione di energia elettrica. Per il 2022 si parla per il manifatturiero italiano – a politiche
invariate – di un’incidenza dei costi energetici sul totale dei costi di produzione dell’8%, esattamente il
doppio del periodo pre-crisi. Per l’industria francese l’incidenza sarà poco più della metà, per quella
tedesca quasi un punto percentuale in meno. Sono i frutti avvelenati di una politica energetica nazionale
inesistente, problema che le imprese denunciano da sempre e che ora scoppia in tutta la sua portata.
E questo in un quadro segnato dall’inflazione crescente, dalla stretta della BCE sui tassi e dai dati allarmanti
sulla finanza pubblica italiana.
Non è una resistenza passiva quella delle imprese, non può esserlo. Se faticosamente ce la stiamo facendo
è perché non abbiamo lasciato niente di intentato, ma abbiamo riorganizzato, introdotto nuove tecnologie,
fatto crescere le competenze, efficientato i processi. Tutto questo e molto altro concorre a farci andare
avanti e a farci gettare il cuore oltre l’ostacolo delle crisi.
La leva sostenibilità
Negli imponenti processi che si profilano verso nuovi assetti potremo usare come leva anche un fattore che
gli ultimi eventi hanno in parte oscurato e in parte enfatizzato, ma che in ogni caso è destinato a occupare
prepotentemente la ribalta: la sostenibilità.
Il mondo occidentale, che costituisce gran parte dei nostri mercati, è forse ormai maturo per recepire
messaggi che vadano nel senso della sostenibilità – ambientale e sociale – senza scadere, come è accaduto
troppo spesso, in visioni di volta in volta utopistiche, pauperistiche o sterilmente apocalittiche che non
portano da nessuna parte.
Quella che ci serve è una sostenibilità vera e concreta, basata su dati scientifici e non su sensazioni di
“pancia” o su pregiudizi antindustriali.
Una sostenibilità che non neghi e non demonizzi la produzione ma ne faccia uno strumento di crescita non
impattante.
Una sostenibilità che non insegua il facile consenso politico dell’immobilismo, dell’indisponibilità e degli
irrigidimenti di cittadini che troppo stesso dicono “no” a qualsiasi opera e iniziativa. Cittadini che forse
avrebbero atteggiamenti diversi se ci si preoccupasse più di curare la loro cultura e formazione civile che di
intercettare il loro voto.
Obiettivi ovvi ma difficili da raggiungere
Mi rammarico e mi sgomento quando penso alla fatica che il mondo delle imprese – a cominciare da
Confindustria nelle sue varie componenti, inclusa la nostra associazione – sta compiendo per provare a
raggiungere, ai più diversi livelli, obiettivi che dovrebbero essere ritenuti ovvi.
Penso a incomprensibili pastoie burocratiche che ostacolano attività virtuose come la depurazione delle
acque. Aquapur, Gida, Consorzio del Torrente Pescia sono vitali per l’industria dei rispettivi territori; sono
realtà esemplari dal punto di vista ambientale, eppure accade che siano tenute in scacco da problemi tanto
inconsistenti nella sostanza quanto micidiali nella forma. Presidente Giani, ci dica qualcosa, ci apra delle
prospettive positive! In questi tempi di carenza di acqua gli ostacoli alla depurazione sono particolarmente
clamorosi.
La depurazione è un esempio di sostenibilità incomprensibilmente ostacolata. Ma penso anche alle regole
sull’end of waste, certamente delicate ma non al punto di doversi periodicamente spiaggiare; penso alla
gestione dei rifiuti, che, occorre ribadirlo, ci sono e ci saranno anche nel più “riciclone” dei contesti futuri.
Rifiuti che, non mi stanco di ripeterlo, possono e devono essere trattati con le tecnologie consolidate oggi
disponibili: tecnologie che sono del tutto in grado di tutelare l’ambiente senza penalizzare l’economia.
Perché ci si avviti su temi di questo genere, perché ci si areni, ci si paralizzi, è incomprensibile: a fronte di
apparenti vantaggi per qualcuno si cade in reali svantaggi di tutti.
La Toscana bella addormentata
Alcuni di questi temi, come dicevo, sono di pertinenza regionale e spero di ascoltare parole confortanti, fra
poco, dal presidente Giani.
Pur con il riguardo dovuto alla sua cortese presenza, non nascondiamo di aspettarci un cambio di passo;
soprattutto sul tema della gestione dei rifiuti – con i vecchi impianti che vengono sbrigativamente dismessi
mentre non procederà certo in parallelo la realizzazione dei nuovi – lo sconcerto del mondo delle imprese è
fortissimo e motivato.
C’è poi il ritardo nell’emanazione dei bandi agevolativi a valere sulle risorse dei Fondi Strutturali 2021-2027:
una penalizzazione per le imprese, che hanno bisogno di ogni sostegno per realizzare gli adeguamenti
imposti da questa fase economica così delicata e difficile.
A livello toscano, e anche su temi diversi da quelli di diretta pertinenza del governo regionale, si percepisce
un’atmosfera più stagnante che dinamica. Negli ultimi tempi l’unico fatto nuovo, tutto da valutare nelle sue
conseguenze, è la nascita della multiutility. Noi siamo azionisti – in senso proprio come Confindustria
Toscana Nord e metaforicamente, attraverso la partecipazione di nostre aziende – di impianti di
depurazione delle acque in tutte e tre le nostre province. Poco fa ricordavo quanto queste realtà siano per
noi fondamentali: si può ben capire con quanta attenzione e interesse guardiamo a quanto avviene
nell’ambito delle utilities.
Per il resto la nostra Toscana rischia di acquisire sempre più la natura e l’immagine di una bella
addormentata.
Un futuro basato sui Valori
Credo non sfugga a nessuno che le considerazioni sulla sostenibilità non sono un “fuori tema” rispetto
all’argomento di questa assemblea pubblica.
Se dobbiamo ripensare le catene del valore, dobbiamo anche tenere conto dei Valori: sì, quelli con la V
maiuscola. E fra questi la sostenibilità ha oggi un posto di speciale attenzione, nella sua declinazione sia
ambientale, sia, non certo meno importante, sociale.
La globalizzazione 2.0 deve corrispondere anche a un nuovo umanesimo, a una nuova stagione di
attenzione per i valori umani.
Anche su questo piano le nostre imprese hanno opportunità più di vedere esaltate le loro caratteristiche
che di perdere qualcosa. Non è un caso se quando si parla di salario minimo il nostro presidente Bonomi ha
buon gioco nel dire che nel merito il problema non ci tocca: sull’entità delle retribuzioni, ma anche sul
trattamento complessivo dei nostri collaboratori, gli standard nell’industria italiana sono elevati.
Il bello e il buono di essere industria
Il problema è semmai quello di far comprendere pienamente chi siamo a clienti, istituzioni, consumatori,
mondo dell’informazione e anche a potenziali collaboratori che rimangono lontani dalle nostre imprese a
causa di pregiudizi infondati sul lavoro in fabbrica.
Dobbiamo far comprendere il bello e il buono di essere industria, di produrre, di contribuire al bene
comune in maniera moderna e rispettosa. Ha questo significato la nostra presenza attiva al Pianeta Terra
Festival che si terrà proprio qui a Lucca a ottobre: migliorarci sempre, instancabilmente, ma anche
valorizzare ciò che siamo già adesso.
Guardando alle nostre aziende il futuro è effettivamente già oggi, o quantomeno i ponti per arrivare al
futuro ci sono; potremo percorrerli e andare verso il domani se anche ciò che è intorno a noi ci asseconderà
nel nostro impegno.